TESTIMONIANZA DI DANIELA AREZZINI
“Sai Lory, il tuo fratellino non arriverà dalla pancia della mamma, ma andremo a prenderlo con l’aereo e non ti somiglierà per niente: sarà color cioccolato e avrà i capelli riccioli riccioli !” È così che dissi a Lorenzo, che allora aveva 5 anni, che avremmo adottato un bambino. Già, perché dopo due anni di tentativi abbiamo scoperto che quel secondo figlio non sarebbe potuto arrivare dalla pancia come Lorenzo e così abbiamo cominciato la lunga strada che ci ha portato in Etiopia da Ibrahim. Abbiamo percorso centinaia di chilometri tra Firenze, Ancona, Roma e Mirano per incontrare assistenti sociali, psicologi, giudici del tribunale dei minorenni e personale dell’ente che ci ha assistiti nella procedura. All’inizio è tutto molto eccitante perché ci sono molte cose da fare. Appuntamenti tra uffici del comune, procura, tribunale, notaio per preparare una pila di documenti che non finiscono mai. Incontri con assistenti sociali e psicologi che devono relazionare al tribunale dei minorenni che la tua famiglia è idonea ad accogliere un bambino, che vengono a vedere casa tua e addirittura hanno voluto incontrare anche Lorenzo, per vedere se fosse pronto ad accogliere un fratellino adottivo. Il tutto finalizzato all’incontro con il giudice per avere il decreto di idoneità all’adozione. Poi la scelta dell’ente e del paese straniero e il nostro cuore è volato subito in Etiopia. Altri documenti da tradurre e spedire all’estero, corsi di formazione, e poi, diceva l’ente, “dovete soltanto aspettare”. Era passato già più di un anno da quando abbiamo cominciato il percorso adottivo e ci avevano prospettato circa un altro anno o due di attesa per concludere tutto. Ce ne sono voluti altri quattro!!! Anni lunghissimi, fatti di silenzi, incertezze e rischio di non arrivare a nulla perché l’Etiopia, per volontà politica, ha cominciato a rallentare le procedure di adozione internazionale. Chiamavo spesso l’ente che ci seguiva per avere aggiornamenti. “Nulla di nuovo Signora” mi sono sentita ripetere in continuazione. Intanto diventi una cosa sola con il telefono, non me ne separavo mai e controllavo sempre che ci fosse segnale, aspettando la fatidica telefonata che ci avrebbe abbinato al nostro bambino. Nel frattempo molte coppie che abbiamo conosciuto durante il percorso hanno dovuto rinunciare al sogno di adottare perché l’Etiopia ha revocato gli abbinamenti con il “loro” bambini perché aveva intenzione di non continuare con le adozioni internazionali, cosa che poi si è verificata qualche mese dopo l’arrivo di Ibrahim in Italia. Tutto questo stato di incertezza ha profondamente segnato la nostra famiglia, sempre più ancorata al desiderio di arrivare in fondo. ”Ma quando arriva il mio fratellino?” chiedeva Lorenzo piangendo. E anche tra me e mio marito cominciavano i silenzi, perché o parlavamo di adozione e di niente altro. Perché il figlio adottivo ti nasce dentro ancora prima di sapere che esiste e nasce non soltanto nella pancia, ma in ogni parte del corpo, nella testa, nello stomaco e nel cuore. Ogni cosa che ti circonda ti porta a pensare a lui che è già nato in qualche parte del mondo e che fa già parte della tua vita, pur non sapendo nulla di lui. Ringrazio il Signore che ci ha guidato e dato sostegno in questo periodo in cui metti la tua famiglia nelle mani di sconosciuti, perché se ci fossimo scoraggiati Ibrahim adesso non sarebbe con noi. Dopo quattro anni dall’inizio arriva fa telefonata tanto attesa, che ci informa che un bambino di 11 mesi potrebbe diventare nostro figlio. Ci fecero vedere solamente una foto di lui che stava piangendo e indossava una maglietta e pantaloncini da bambina. Per me non esisteva al mondo bambino più bello: la felicità è stata talmente tanto grande che gli anni di sofferenza si sono cancellati all’istante, proprio come dopo aver partorito Lorenzo, quando i dolori del travaglio svaniscono nel nulla. Ma dovevamo essere ancora prudenti perché le procedure erano molto incerte e rischiose. Ci dissero addirittura di non dire nulla a Lorenzo. Dopo tre mesi di silenzio non siamo più riusciti a mantenere il segreto e abbiamo detto a Lorenzo e alle nostre famiglie la bella notizia, con l’aspettativa di partire presto per andare a prenderlo. E invece è passato un altro anno e mezzo prima che potessimo partire per Addis Abeba. Dopo quasi 6 anni, quasi increduli di avercela fatta era arrivato il momenti tanto atteso e all’improvviso mi ha assalito la paura all’idea di incontrare nostro figlio: e se non gli fossimo piaciuti? Se lui non accettasse l’idea di diventare nostro figlio e venire in Italia? Devo dire che l’adozione mi ha insegnato che la vita è veramente un grande dono, non c’è nulla di scontato anzi, qualsiasi cosa è una grande conquista e diventa il frutto di speranze, desiderio, coraggio e amore. E infatti l’incontro con Ibrahim non è stato così semplice. Lui era terrorizzato vedendo questi tre bianchi che all’improvviso si sono presentati dicendogli che saremmo diventati la sua famiglia. Ha pianto per tutto il pomeriggio, mentre noi cercavamo di giocare con lui con le cose che avevamo portato dall’Italia. Gli altri bambini dell’orfanotrofio non ci avrebbero mai lasciati, si aggrappavano alle nostre gambe e alle nostre schiene per poter venire con noi, e lui invece ci guardava con diffidenza. Fino a quando non l’abbiamo salutato per poi tornare il giorno dopo, e lui con un filo di voce che inizialmente ha sentito solamente Lorenzo, mi ha detto “ciao mamma”. Le parole non riescono ad esprimere ciò che abbiamo provato in quel momento, tutto troppo forte, emozioni contrastanti che si amplificano all’infinito. Ibrahim è diventato così nostro figlio, dopo una sentenza in Tribunale di Addis Abeba e un mese di permanenza in Etiopia. Tornati a casa avevamo tanta voglia di “normalità”, di ritrovare il nostro equilibrio familiare dopo aver passato tutti questi anni di attesa e queste emozioni molto forti. Ma della nostra “normalità “ non c’era più nulla. Ibrahim ha sconvolto tutto. Lui era felicissimo ed entusiasta della sua nuova casa, tutta addobbata a festa dai nostri amici prima del rientro, della camera condivisa con il fratello , dei nonni, gli zii, cugini e dei tanti amici che abbiamo. Ma il nostro amore sembrava non bastare, tanta era la rabbia che a volte tirava fuori. Rabbia contro quella vita che gli ha negato una famiglia fin dalla nascita e che adesso gli si presentava davanti con la presunzione che andasse tutto bene e che ci saremmo amati l’uno l’altro. Ci metteva alla prova su tutto, specialmente a me, mi sfidava ogni volta che gli dicevo di no o che cercavo di fargli rispettare le regole di casa. Volavano addirittura piatti per terra o morsi nelle gambe. Mi guardava con quegli occhioni profondi pieni di rabbia quasi a volermi dire: “vediamo fino a che punto sei disposta ad arrivare pur di tenermi con te”. A volte mi si attaccava come una cozza e mi riempiva di baci, a volte si rifiutava di venire nel lettone con noi o non voleva che dicessimo le preghiere insieme. E noi, stanchi e stremati da tutto il percorso, abbiamo fatto molta fatica per ritrovare un nuovo equilibrio familiare, facendogli capire che lo amiamo immensamente e che lui è parte di noi. Un anno di rodaggio c’è voluto per essere tutti più sereni. Adesso, dopo quattro anni che siamo famiglia, Ibrahim è un bambino sereno, amoroso, cercato da tutti i suoi compagni di scuola e soprattutto è un bambino felice. Lui vuole essere felice e riesce a trasmettere questa gioia a tutti noi, è il nostro raggio di sole.
Daniela